Inattualità del CIT secondo Regolamento tecnico dell’ENAC per i manutentori di componenti aeronautici.
Nell’esperienza di consulenza presso aziende aeronautiche di manutenzione su componenti ho avuto modo di rilevare l’inattualità, potremmo parlare di “obsolescenza normativa”, delle regole relative al rilascio dei CIT per personale che riammette in servizio, con emissione di EASA Form 1, componenti aeronautici.
Tale obsolescenza normativa provoca diversi problemi al sistema delle imprese aeronautiche impegnate in questo settore. Ma cerchiamo di capire le ragioni per le quali tale ordinamento esiste e perché necessita di essere “svecchiato”, cosa facilmente ottenibile con un minimo di proattività da parte dell’ENAC.
La storia
In un prima edizione, il Regolamento UE 2042/2003, non si preoccupò dei tecnici che effettuavano la manutenzione su componenti aeronautici, sia perché il livello di rischio associato a questo tipo di manutenzione non era paragonabile a quello della manutenzione sugli aeromobili, sia perché, in ambito europeo, vi era un panorama variegato sulle qualifiche e/o sul percorso che doveva essere seguito per la riammissione in servizio dei componenti.
Ad esempio, in Italia era previsto che gli appartenenti alla funzione del Controllo delle Ditte di Manutenzione (che allora era controllo qualità “duro e puro”, cioè una funzione interna alle organizzazioni con il compito esclusivo di controllare la corretta esecuzione della manutenzione e la successiva delibera delle parti) fossero in possesso di un Certificato di Idoneità Tecnica (Controllore e Capo Controllo) il cui rilascio era regolato dal Regolamento Tecnico del Registro Aeronautico Italiano (ENAC dal 1997).
Quando nacque l’EASA con i relativi regolamenti europei che disciplinavano anche il rilascio delle Licenze di Manutentore Aeronautico per aeromobili, in Italia, per inerzia, si traslarono molti dei requisiti previsti per un tecnico di aeromobile nei requisiti previsti per i tecnici che operavano su componenti: per questo furono previsti esami su materie non dissimili dai moduli della Parte 66, ancorché semplificati in relazione alla specialità.
Tali esami avrebbero dovuto essere condotti dall’ENAC per lo più, in quanto era difficile prevedere che ci fosse una Parte 147 (approvata per i corsi per i tecnici secondo Parte 66) capace anche di formare il personale per i singoli “ratings” previsti comunque dalla norma. Cionondimeno il Regolamento Tecnico dell’ormai ENAC prevedeva, e prevede, “pro-forma”, la possibilità che l’esame venga condotto da un’organizzazione Parte 147.
Lo “strabismo” del sistema
Già qui si rileva un significativo strabismo della norma “as is”: un tecnico di aeromobile deve conoscere l’aeromobile, nella sua interezza, per poterlo riammettere in servizio, e, credo, non ci sono dubbi sulla immensa differenza che c’è tra la conoscenza necessaria ai fini della riammissione in servizio di un aeromobile, con una variabilità di difetti enorme che il tecnico deve saper valutare, e la conoscenza necessaria ai fini della riammissione in servizio di un componente, con una difettologia limitata che, nella totalità dei casi, è sempre la stessa.
Oltre a questo, c’è il fatto, anch’esso notevole, che un tecnico di aeromobile può trovarsi a riammettere in servizio un aeromobile sul piazzale di un aeroporto e/o comunque al di fuori della “main base”, mentre un tecnico di manutenzione per componenti difficilmente può operare al di fuori delle “facilities” per le quali l’organizzazione è approvata, costituendo questa circostanza una condizione di maggior sicurezza in relazione al tipo di attività.
Infine, mentre può esistere una LMA senza un “Type rating” (quella che viene rilasciata dalle 147, ad esempio) non può esistere un CIT senza “rating”.
Questo primo “strabismo” ne comporta però un altro, che è quello che più impatta negativamente sul sistema aeronautico nazionale.
Quando l’ENAC rilascia un CIT, che è personale (anche qui si è seguita la logica della Parte 66), sta rilasciando un Certificato di Idoneità Tecnica che è relativo ad un intero “rating” (è un titolo a tutti gli effetti pur non potendo esistere da solo).
Per contro, un tecnico di manutenzione su componenti, che opera in un’organizzazione di manutenzione per componenti, deve riammettere in servizio non tutti i componenti che rientrano in quel “rating” ma solo quelli per i quali l’organizzazione di manutenzione è approvata in accordo alla sua “Capability list”.
Questo comporta che, mentre l’ENAC guarda al Certificato di Idoneità Tecnica nel suo complesso, (tutto il “rating”), l’organizzazione ha bisogno di riammettere in servizio solo i componenti nell’ambito della sua “Capability List”.
Peraltro, il percorso per il rilascio della Certification Authorisation (necessaria ai fini della possibilità di riammettere in servizio un componente) prevede già che la persona debba saper operare sul componente da riammettere in servizio, che è proprio quello che serve all’organizzazione. Per cui, supponiamo che un tecnico neo-assunto, segua tutto il percorso formativo previsto dall’organizzazione, approvato dall’ENAC (essendo un’organizzazione approvata), il passaggio attraverso un esame per l’ottenimento del CIT è un inutile orpello.
A cosa serve un CIT?
Sulla base delle precedenti considerazioni, un CIT non serve a nulla, mentre è certo che provoca una appesantimento del sistema, perché obbliga il candidato a sostenere un esame, di cui, peraltro, non esiste un database delle domande (o, almeno, non è pubblico) e che è, quindi, soggetto alla variabilità di interpretazione del singolo funzionario ENAC relativamente a cosa debba sapere il candidato all’ottenimento di un CIT.
Quindi, il candidato va a sostenere l’esame sostanzialmente al buio, non prima che siano passati due-tre anni (almeno, perché l’età minima per il CIT è di 21 anni) dall’ultima volta che ha studiato materie così diverse, e questo nella stragrande maggioranza dei casi provoca inutile ansia nel candidato, che peraltro sente su di sé il peso della prova d’esame, con gli eventuali risvolti, non positivi nella migliore delle ipotesi, sul luogo di lavoro.
E d’altronde, se il candidato è stato assunto e ha fatto il percorso formativo/addestrativo previsto, approvato dall’ENAC, per quale motivo per riammettere in servizio il componente dopo manutenzione, che è esattamente lo scopo per il quale è stato formato/addestrato, dovrebbe conoscere altre cose rispetto a quelle per le quali è stato formato/addestrato? È chiaro, l’ENAC deve sempre avere la possibilità di accettare o meno il CS, valutando l’iter formativo seguito dal personale proposto che deve essere rispondente a quello approvato, che poi è la stessa cosa che già avviene in Produzione.
Un esercizio di buon senso sarebbe quello di prevedere che il candidato proposto conosca bene la normativa, le procedure di manutenzione applicabili e le attività che deve certificare (con tutto quello che questo comporta in termini di formazione/addestramento), cosa che può essere verificata semplicemente con un colloquio, eventualmente accompagnato da una prova pratica (evitabilissima in presenza delle opportune registrazioni dell’addestramento e conseguente valutazione congiunta di MM e QM (e, adesso, CMM)).
In sovrappiù, l’eventuale esito negativo dell’esame comporta un problema per l’organizzazione, perché la si obbliga ad un “collo di bottiglia” che è esattamente l’opposto di quello di cui avrebbe bisogno e cioè di una maggior fluidità nelle procedure tecnico-amministrative: l’organizzazione non potrà utilizzare un tecnico pur formato, in accordo ad un iter approvato, in quanto non ha un CIT che, per le attività d’interesse dell’organizzazione, è assolutamente inutile: talmente inutile che il suo possesso non abilita la persona a fare alcunché se non è stato adeguatamente formato/addestrato all’interno dell’organizzazione per conto della quale (“on behalf”) deve riammettere in servizio un componente.
In buona sostanza, il CIT non dà nessuna garanzia, né all’Autorità, che comunque non consente la riammissione in servizio “sic et simpliciter” a chi ne è in possesso, né all’organizzazione, che deve fare esattamente quello che già fa per formare/addestrare il tecnico.
In ultimo, il CIT non serve nemmeno al suo detentore perché, se il detentore di un CIT va in un’azienda approvata con una “Capability List” che pure avesse gli stessi “ratings” di quella da cui proviene, a meno di una coincidenza anche di pp/nn, dovrebbe comunque rifare il percorso formativo/addestrativo relativo a pp/nn diversi nello stesso “rating”, fermo restando che deve fare anche il restante “training”: ma questo dovrebbe farlo anche senza un CIT, ovviamente.
Conclusioni
In definitiva, il CIT non serve a nessuno, non dice nulla sulla capacità del tecnico, non sgrava l’organizzazione dalla necessità della formazione e, paradossalmente, può deresponsabilizzarla ponendo, invece, un onere in capo all’Autorità, che è quello della conduzione di un esame, peraltro non “standardizzato” e, quindi, con variabilità legata al luogo e al funzionario incaricato.
D’altro canto è, invece, evidente il beneficio in termini di crescita dell’organizzazione per una sua maggiore responsabilizzazione ai fini della presentazione di candidati adeguatamente formati in relazione alle attività di certificazione delle parti dopo manutenzione, che è il suo “core business”.
Non sarà il caso di eliminare questo tipo di certificato mediante una modifica al Regolamento Tecnico che recepisca i principi di quello che già si fa in Produzione?
Questo consentirebbe di allineare l’Italia ad altri Paesi, sburocratizzando l’impiego del personale nella manutenzione di componenti, specie in una fase in cui abbiamo anche tanto bisogno di questo personale. Tale semplificazione è tranquillamente bilanciata dalle verifiche che l’Autorità già esegue puntualmente sulla formazione del personale all’interno delle organizzazioni.
Insomma, vi sono ampi margini di miglioramento del sistema e l’ENAC ha i poteri per intervenire autonomamente: speriamo lo faccia, perché sarebbe un bel contributo al sistema mantenendo invariata l’attenzione sulla sicurezza.